Nel 2025 ci troviamo ancora a parlare di violenza di genere (la maggior parte delle volte in modo scorretto). Ancora a contare femminicidi, a raccontare storie di soprusi, a rispondere a domande che dovrebbero avere risposte chiare. Eppure no, non lo sono. La violenza sulle donne – e in generale la violenza domestica – non è una questione privata, un fatto isolato, una patologia individuale. È un fenomeno culturale. E come tale, si trasmette, si riproduce, si legittima.
Non è follia, è potere
Quando si parla di violenza, il primo passo è togliere la patina dell’eccezionalità. Non stiamo parlando solo di gesti estremi, ma di una cultura della sopraffazione. La violenza di genere è un’espressione di potere. Un potere che si esercita sui corpi, sulle emozioni, sulle scelte. Che si esprime non solo con i pugni, ma con il controllo, l’umiliazione, l’isolamento. E che viene tollerato perché si nutre di un immaginario collettivo che lo rende possibile.
La nostra società ha costruito – e continua a mantenere – un sistema di pensiero in cui la virilità è ancora associata al dominio e la femminilità alla sottomissione. È il motivo per cui in molte famiglie, anche in quelle più insospettabili, si tollera ancora che un padre gridi, imponga, punisca, mentre una madre che si ribella viene tacciata di isteria. È il motivo per cui, nelle aule scolastiche e nei corridoi delle case, il maschio viene ancora “salvato”, mentre la femmina viene costantemente messa alla prova.
L’educazione emotiva non è un optional
Parlare di violenza in chiave culturale significa spostare lo sguardo. Significa chiederci dove nasce, come si costruisce, come si tramanda. E, soprattutto, come possiamo interromperla. Nessun percorso educativo dovrebbe prescindere da una riflessione profonda su cosa significa relazione, rispetto, consenso. Eppure, nei programmi scolastici, l’educazione emotiva resta marginale, relegata a progetti, a iniziative esterne.
Educare alla parità significa partire dalla radice. Non serve solo parlare di femminicidi, serve parlare di linguaggio. Di dinamiche familiari. Di come si cresce. Di come si amano le persone. Di cosa si può fare e non fare quando l’altro o l’altra dice “no”. Di come si riconoscono i segnali prima che la violenza diventi cronaca.
Per questo genitrici, genitori, insegnanti, hanno un ruolo centrale. Sono coloro che per prime e primi possono agire sul campo della prevenzione. Ma solo se hanno strumenti, se hanno spazi di confronto, se sono disposte e disposti a guardarsi dentro. Perché il problema non sono solo “gli altri”. Il problema è culturale. E se è culturale, riguarda tutte e tutti.
I modelli familiari: quando il patriarcato si veste da normalità
Non serve crescere in contesti estremi per interiorizzare il patriarcato. A volte basta vivere in famiglie “perbene”, dove le madri tacciono e i padri decidono. Dove le figlie imparano presto che la loro voce ha un prezzo e i figli che la rabbia è esercizio di potere. Il patriarcato non ha bisogno di gridare per essere efficace: è sottile e si trasforma nella “norma”.
La violenza domestica trova terreno fertile proprio lì, dove non si nomina. Dove si giustifica, si normalizza. Dove si lascia che un’adolescente venga colpevolizzata perché si è “messa nei guai”, invece di essere creduta, accolta, protetta magari da un abuso sessuale. E dove il carnefice – invece di essere denunciato – viene invitato a cena, perché “è di famiglia”.
Chi lavora con l’infanzia e l’adolescenza non può ignorare che molte giovani vite crescono in questi silenzi. E che dietro molti comportamenti “difficili”, molte chiusure, molti scoppi di rabbia o di apatia, si nasconde un sistema disfunzionale che ha il sapore della casa.
Le parole sono importanti
Chiamiamola col suo nome: violenza. Non “tensione”, non “litigio”, non “conflitto familiare”. La violenza di genere è un atto intenzionale di dominio. E come tale va riconosciuto e contrastato. Anche – e soprattutto – nelle sue forme più sottili: quando si fa passare una relazione disfunzionale come “passione travolgente”, quando si insegna che “se ti tratta male è perché ci tiene”, quando si dice a una ragazza che dovrebbe essere più comprensiva, meno aggressiva, più disponibile.
Serve una nuova grammatica relazionale. Serve chiamare le cose con il loro nome, anche se fa male. Serve rompere il tabù che lega il dolore al silenzio. Perché ciò che non si nomina, si perpetua.
E se fosse anche colpa nostra?
È comodo pensare alla violenza come a qualcosa che accade lontano da noi. A qualcun’altra. A qualcun’altro. Ma la verità è che tutte e tutti siamo dentro questa cultura. Quando giustifichiamo, quando banalizziamo, quando educhiamo alla vergogna invece che alla libertà, partecipiamo – anche senza volerlo – a questo sistema.
Forse è il momento di guardare in faccia questa verità scomoda. Di chiederci non solo cosa possiamo fare per cambiare le cose, ma cosa stiamo già facendo – o non facendo – per mantenerle così come sono.
Il patriarcato non è un fantasma: abita le nostre case, i nostri linguaggi e si nutre – soprattutto – dei nostri silenzi.