La storia di Elisabetta
Non so esattamente quando ho smesso di aspettare che passasse. L’enuresi, intendo. Le prime volte erano isolate e tutti mi dicevano “capita”, “è normale”, “crescendo smette”. Ma sono passati gli anni e mio figlio continua a bagnare il letto.
Ha sette anni. Non ha problemi medici, è vivace, a scuola se la cava, gioca con gli amici, ride spesso. Poi arriva la notte. E il letto bagnato è lì, ogni volta, come un piccolo nodo che si ripete. Non sempre. Ma abbastanza da segnare un ritmo.
La vergogna
All’inizio non lo dicevo a nessuno. Non per paura, ma per quella forma strana di vergogna che si insinua quando qualcosa esce dal copione. Quando tutti parlano di notti finalmente tranquille e pigiami asciutti e tu sei ancora lì a lavare lenzuola all’alba.
Ho provato ad affrontarla in modo razionale. Ho letto (ma sul web ci sono sempre le stesse informazioni), ho chiesto, ho osservato. L’enuresi può avere cause diverse: emotive, neurologiche, ereditarie. Nessuna risposta netta. Nessuna formula magica. E forse è proprio questo che ti spiazza: l’incertezza.
I dubbi
Ti chiedi se stai sbagliando qualcosa. Se è un tuo riflesso. Se tuo figlio sente troppo o troppo poco. Se hai premuto inavvertitamente un tasto sbagliato. È un dubbio sottile, che non ti fa sentire in colpa, ma ti lascia una domanda aperta. E la domanda resta.
Non è facile parlarne. Non se ne parla quasi mai. Le madri parlano di mille cose, anche intime, ma non dell’enuresi. Come se fosse una minuscola macchia sul curriculum perfetto della maternità. Non abbastanza grave da giustificare una richiesta d’aiuto, ma nemmeno abbastanza leggera da riderci sopra.
Finalmente un confronto
Un giorno, con una mamma dell’asilo, ho accennato la cosa. Un mezzo sorriso, un “succede anche a noi”. Detto a bassa voce, come se stessimo scambiandoci un segreto. Ed è stato un sollievo. Non tanto sapere che non siamo soli, ma sentire che si può dire. Che si può nominare, senza temere giudizi.
L’enuresi non è una tragedia. Ma è stancante. Non tanto per la fatica fisica – che quella si affronta – quanto per quel senso di distanza che crea. Ti allontana un po’ dalle conversazioni, dai confronti. Ti mette in uno spazio silenzioso, dove ogni tanto ti chiedi: “Ma solo a noi succede ancora?”.
Ho imparato a non caricarlo. Non lo sgrido, non lo faccio sentire sbagliato. Non lo premio quando resta asciutto, né lo punisco quando non lo è. Ho smesso di trattare le notti come esami da superare. È un equilibrio difficile, ma necessario.
Nuove strategie
E sto anche imparando a non caricarmi troppo. Perché essere madre non significa avere tutte le risposte. A volte significa solo stare. Rimanere lì, vicino. Nella confusione, nell’incertezza, nell’attesa.
Ecco perché scrivo qui. Perché in questo spazio ho sentito, finalmente, che si può parlare senza essere etichettati. Che esistono luoghi dove non serve nascondersi, dove i temi scomodi trovano voce. E che anche l’enuresi, tra le mille sfumature della genitorialità, ha diritto di esistere nel discorso, senza vergogna.
Grazie a questo spazio, che non giudica, ma accoglie. Dove chi scrive e chi legge si riconosce in silenzi simili. Ed è lì che, a volte, inizia davvero il cambiamento.