Storie

Ho vissuto l’enuresi fino all’adolescenza: la storia di Pietro tra vergogna, silenzio e accettazione

Enuresi. Una parola difficile da pronunciare a dodici, tredici, quattordici anni. Una parola che ho odiato per molto tempo, perché significava una cosa sola: vergogna.

Mi chiamo Pietro, ho 32 anni, e da bambino – anzi, da adolescenteho bagnato il letto. Fino a quindici anni. Raccontare la mia storia oggi è un atto di liberazione. Ma anche un atto di responsabilità. Perché so che là fuori ci sono bambini e ragazzi che vivono la stessa situazione “silenziosa” che ho vissuto io. E genitori che si sentono inadeguati, soli, pieni di domande a cui nessuno risponde.

Il significato implicito per me di questo sintomo

Per me l’enuresi non è mai stata solo “bagnare il letto”. Era svegliarsi ogni mattina con il terrore negli occhi. Era alzarsi prima dei miei genitori, cercare di nascondere le lenzuola bagnate, trovare scuse con mia madre. Era vergogna, profonda, viscerale.

La mia famiglia non sapeva gestirla. Mio padre era di quelli che crede che un figlio si debba “svegliare” con un rimprovero, o peggio. Ricordo ancora il tono secco con cui diceva: “Alla tua età? Ancora?”
Mia madre lavava in silenzio. Non diceva nulla, ma ogni gesto era impregnato di disapprovazione, come se la pipì nel letto fosse colpa mia. E un po’ lo credevo anche io.

L’enuresi notturna capita a molti bambini. Eppure se ne parla pochissimo. È come se fosse un tabù, un difetto da nascondere. Quando ero ragazzino, cercavo libri o riviste che ne parlassero, qualcosa che mi facesse sentire meno solo. Ma niente. Solo il silenzio. Il messaggio implicito era: “Di queste cose non si parla”.

Nel silenzio, mi sono sentito rotto.

Le gite scolastiche? Evitate con ogni scusa. I pigiama party? Mai andato. Trovavo strategie, bugie, sparizioni. Tutto pur di non rischiare di essere scoperto. L’idea che qualcuno potesse ridere di me mi faceva sentire piccolo, sbagliato, fuori posto.

La verità è che bagnare il letto da grandi (e forse anche da piccoli) non è un capriccio. È un sintomo. Nel mio caso, era la manifestazione fisica di un disagio emotivo. Vivevo in una casa dove le emozioni erano bandite. La paura, la tensione continua, i conflitti familiari… tutto si accumulava nel mio corpo. E di notte, mentre la mia mente dormiva, il mio corpo parlava.

La routine, la scuola, le amicizie

A 14 anni avevo già imparato a evitare tutto ciò che potesse mettermi “a rischio”. Non dormivo dai nonni, non andavo in campeggio, nemmeno un weekend fuori con gli amici. Vivevo nella costante paura che il mio segreto venisse a galla. E con quella paura, cresceva il senso di solitudine.

Ricordo ancora una mattina in particolare. Avevo bagnato il letto anche quella notte. Ero stanco, arrabbiato, disgustato da me stesso. Presi le lenzuola, le misi in lavatrice in silenzio. Mia madre mi guardò e disse solo: “Ancora?”. Non c’era cattiveria, ma neanche amore. Solo frustrazione. Quella parola mi si conficcò addosso come una spilla: ancora. Come se stessi fallendo. Come se stessi scegliendo di fallire.

Il cambiamento

La svolta è arrivata più tardi, quando ho iniziato un percorso di psicoterapia. Avevo ventidue anni. Non avevo ancora trovato un equilibrio, ma avevo trovato il desiderio di chiedere aiuto. Durante le prime sedute non riuscivo nemmeno a pronunciare la parola “enuresi”. Mi sembrava ancora troppo carica di vergogna.

Poi, piano piano, ho iniziato a capire. L’enuresi non era una mia colpa. Era un sintomo. Un campanello d’allarme. Il mio corpo stava gridando qualcosa che nessuno voleva ascoltare. Era la mia richiesta di aiuto.

Oggi, scrivendo questa storia, mi sento fortunato ad aver trovato uno spazio in cui poterne parlare. Perché raccontare significa rompere il tabù. E se anche solo una famiglia leggendo queste parole si sentirà meno sola, allora questa vergogna non sarà stata vana.

So cosa significa vivere nella paura. So cosa significa essere un bambino che bagna il letto e si sente “sbagliato”. Ma so anche che può non essere per sempre. Che si può uscire dal silenzio. E che ci sono modi per affrontare questi sintomi che in realtà sono lì per aiutarci.

L’enuresi è un disturbo dell’infanzia che può durare più a lungo di quanto si pensi. Ma soprattutto, non va mai sottovalutata sul piano emotivo. Io ci ho messo anni per accettare quella parte di me e l’ho fatto in terapia.

Perché la vergogna si scioglie solo quando trova uno spazio sicuro dove essere accolta.