Le femmine devono stare composte
Da secoli, l’educazione delle bambine è improntata a un copione preciso: dolcezza, compostezza, decoro, ubbidienza. Un teatro silenzioso dove si recita senza sbavature, altrimenti si rischia di “non essere amate”. Eppure, quel copione è la prima forma di violenza culturale che molte ricevono. Parliamo di stereotipi di genere.
La trappola invisibile della “brava bambina”
Essere brave, per molte, ha significato imparare a non disturbare. A non urlare. A non dire no. A sorridere anche quando dentro si spezza qualcosa. A rendersi piacevoli, accoglienti, contenute. La bambina composta non è libera: è addestrata.
Questo addestramento, spesso involontario e trasversale, si insinua nei gesti quotidiani. Un grembiule rosa. Un “copriti le gambe”. Un “non parlare con la bocca piena” che si trasforma, crescendo, in “non parlare troppo”. Non parlare affatto. Il silenzio, spesso, è il primo indumento che viene fatto indossare.
Le radici culturali della repressione
L’origine di questo schema affonda nelle fondamenta del patriarcato: plasmare individui che non disturbano l’ordine. Le femmine devono restare composte, mentre i maschi “devono farsi valere”. Qui nasce il dislivello affettivo, sessuale e sociale che impatta in modo profondo anche le persone LGBTQIA+, i corpi non conformi, le identità fluide.
Chi si allontana dalla norma binaria o eteronormata viene punito, spesso senza bisogno di parole. Uno sguardo. Un’esclusione. Una risata feroce in classe. Lo stereotipo della brava bambina – o del bravo bambino – è una gabbia che non fa sconti a nessunǝ. Solo che per alcune, quella gabbia ha le sbarre foderate di finta gentilezza.
Il corpo come campo di battaglia
Il controllo del corpo è la forma più sottile, e allo stesso tempo brutale, di dominio culturale. Si comincia presto: stare composte. Tenere le gambe chiuse. Non mangiare troppo. Non ingrassare. Non toccarsi. Non mostrarsi. Non desiderare.
Il corpo femminile, fin dall’infanzia, è educato all’autocensura: è l’altro a stabilirne i limiti, i volumi, i silenzi. A scuola, nel gioco, negli spogliatoi, nello sguardo delle persone adulte. Il corpo non è un luogo di libertà, ma un oggetto da regolare.
Persino l’affetto è monitorato: una bambina affettuosa viene letta come “troppo espansiva”; un’adolescente che sperimenta la propria sensualità viene spesso marchiata come “provocante”. Questo non è un semplice errore di interpretazione. È un progetto educativo implicito che plasma i corpi altrui a misura della paura altrui.
Quando poi il corpo cambia, con la pubertà o con una presa di coscienza dell’identità di genere o dell’orientamento sessuale, il controllo si irrigidisce. Il messaggio è chiaro: “non devi farlo vedere”, “non devi farlo capire”, “non devi farlo esistere”.
E così il corpo diventa un campo di battaglia: luogo di vergogna, di autocontrollo, di conflitto. Molte imparano a conviverci come si convive con un coinquilino molesto: tollerandolo, nascondendolo, odiandolo in silenzio.
Quando la repressione diventa trauma
In contesti familiari rigidi, la regola della “compostezza” può diventare una forma di vera e propria repressione psicologica. Bambine e adolescenti cresciute in ambienti coercitivi imparano a non nominare ciò che provano, per paura di rompere l’equilibrio. Ma il prezzo è altissimo: ansia, attacchi di panico, disturbi psicosomatici e una difficoltà profonda a riconoscersi, ad autodeterminarsi, a credere di poter essere amate senza dover obbedire a un copione.
E se quel corpo, già ipercontrollato, è anche un corpo queer o trans, il peso diventa intollerabile. Non si parla solo di isolamento, ma di vera e propria negazione dell’esistenza.
Educazione affettiva e sessuale: una questione urgente
Per cambiare questo paradigma, serve un’educazione affettiva e sessuale capace di decostruire gli stereotipi e costruire libertà. Un’educazione che parta dalle emozioni, che insegni il consenso, che riconosca tutte le identità e i desideri come degni di rispetto.
Questo non è solo un compito per le scuole: è un’urgenza culturale che chiama in causa genitrici, genitori, insegnanti, educatrici, educatori e chiunque sia a contatto con le nuove generazioni. È un lavoro quotidiano che richiede linguaggio consapevole, ascolto attivo, coraggio educativo.
Significa anche smettere di ridicolizzare le fragilità, non minimizzare i segnali di malessere, non correggere chi ama in modo diverso da ciò che ci aspettiamo. Significa creare spazio per parlare di ciò che fa paura: corpo, emozioni, identità, desiderio, dolore. Anche quando non si hanno risposte, anche quando le parole fanno tremare.
Questo controllo non si esaurisce nell’infanzia. Cresce insieme alla persona, modellando in silenzio le sue scelte, i suoi sogni, la percezione stessa del possibile. Molte, da adulte, non osano candidarsi per una leadership, non si sentono “abbastanza” per ambire a una carriera artistica, politica, pubblica. Non sanno come chiedere, pretendere, desiderare. La gabbia della “brava bambina” diventa la gabbia della donna remissiva, della persona che non osa, che si adatta.
Parlare di brave bambine non aiuta a farle diventare donne coraggiose, né persone libere. La narrazione della compostezza come valore assoluto reprime un fatto fondamentale: che ogni bambina e ogni bambino devono poter coltivare sia la sensibilità che il coraggio, sia l’empatia che l’audacia, sia la cura che l’iniziativa. Sono dimensioni che convivono. Ed è proprio questa complessità che andrebbe protetta e valorizzata.
Non dite alle bambine a stare composte. Insegnatele a sentirsi intere.