Quando si pronunciano le parole educazione affettiva e sessuale, molte persone sgranano gli occhi, si irrigidiscono, cambiano argomento. Nell’immaginario collettivo, ancora oggi, si pensa che “educare alla sessualità” significhi parlare di rapporti sessuali, spiegare come si fa l’amore o, peggio ancora, “anticipare” il desiderio in creature che dovrebbero invece restare pure, ignare e “innocenti”.
E invece no. L’educazione affettiva e sessuale è tutt’altro. È educazione all’empatia. È educazione al rispetto profondo di sé e delle altre persone. È educazione al consenso, alla consapevolezza corporea, alla libertà di essere. È, in sintesi, educazione a essere persone rispettose.
Il problema, però, non sono le bambine e i bambini. Il vero ostacolo è il disagio di molte persone adulte. Il loro imbarazzo, la loro disinformazione, la fatica a parlare di temi che nessuno ha mai insegnato loro a nominare senza vergogna. Ma questo disagio non può, non deve, diventare una zavorra per chi cresce. Non possiamo continuare a sacrificare l’educazione, la salute e l’autodeterminazione di chi viene dopo, solo perché chi è cresciuto prima non è riuscito a fare pace con il proprio corpo, con la propria storia, con la propria intimità.
Il corpo come territorio da abitare
Per molto tempo il corpo è stato escluso dal discorso educativo, relegato a oggetto di disciplina o di vergogna. Eppure è proprio il corpo il primo territorio di esperienza, di scoperta, di identità. È nel corpo che si manifestano i primi segnali di piacere, di disagio, di confine. È attraverso il corpo che impariamo a dire “sì” e, soprattutto, a dire “no”.
Educare al corpo significa insegnare che ogni persona è responsabile del proprio spazio corporeo. Significa dare strumenti per riconoscere ciò che fa sentire bene e ciò che invece genera malessere. Significa legittimare il rifiuto, senza colpevolizzazione. Insegnare che nessuno ha il diritto di toccare, abbracciare, forzare senza consenso. E che il consenso non è un concetto “da grandi”: è una pratica quotidiana, fatta di ascolto, empatia e rispetto sin dall’infanzia.
Identità e desideri: oltre la norma
L’educazione affettiva e sessuale non può più ridursi a una lezione sull’apparato riproduttivo. Deve includere il tema dell’identità di genere, dell’orientamento sessuale, delle relazioni affettive e delle emozioni. Deve offrire parole nuove a chi non si riconosce nelle gabbie dell’eteronormatività, del binarismo di genere, del modello relazionale dominante.
Le bambine e i bambini che crescono con un’identità LGBTQIA+ esistono. Esistono già alla scuola dell’infanzia, anche se molte persone non vogliono vedere questa realtà. Non si tratta di “precocità”, ma di esistenza. Esistenza che chiede legittimità, linguaggio, spazio. Offrire una narrazione aperta, che non imponga ruoli, colori, desideri predefiniti, è un atto di cura e giustizia.
In un mondo dove la discriminazione può iniziare anche a tre anni, la scuola può essere il primo luogo di libertà o di malessere.
Le parole che servono
Perché si fa così tanta fatica a parlare di corpi e sessualità con le nuove generazioni? Perché molte persone sono ancora intrappolate nel loro stesso imbarazzo, nella loro disinformazione, nella paura di “dire troppo”, di “fare danni”. Ma è proprio il silenzio a fare danni. Sono le omissioni, le bugie, gli sguardi abbassati.
Insegnare le parole giuste – vulva, pene, masturbazione, desiderio, identità, orientamento, confine, consenso – significa togliere potere alla vergogna e darlo alla conoscenza. Significa prevenire gli abusi, le violenze, le manipolazioni. Significa costruire un’alleanza tra persone adulte e giovani, dove chi cresce si sente ascoltata o ascoltato e non giudicata o giudicato.
Chi ha subito abusi sa quanto è stato determinante non aver avuto un linguaggio con cui nominare. Sa cosa vuol dire non essere creduta, non essere protetta. E quanto, invece, avrebbe fatto la differenza un adulto o un’adulta preparata, presente, consapevole.
Educare anche al fallimento educativo
Non c’è educazione senza imperfezione. Chi accompagna la crescita deve saper accogliere i propri limiti, i propri errori, le proprie rigidità. Deve avere il coraggio di rimettersi in discussione, di ascoltare chi ha vissuto la discriminazione, l’esclusione, il dolore. Deve sapere che insegnare il rispetto dei confini passa prima da un lavoro sui propri.
Non si può parlare di rispetto del corpo altrui se si continua a toccare le bambine senza chiederlo. Se si obbligano baci, carezze, sorrisi. Se si insegna che il corpo deve essere sempre disponibile per educazione e per compiacere. È urgente cambiare paradigma. È urgente iniziare da noi.